Aria, aria… aria sul viso, aria intorno al corpo. Un moscerino nell’occhio: normale amministrazione, l’altro giorno ne ho ingoiato uno. Etnomofagia la chiamano. Aria fresca che accarezza le tempie, ne voglio di più… accelero le pedalate, dimentico di frenare in discesa… velocità, desidero guadagnare quanta più velocità possibile. Oggi ho voglia di scappare.
Sfreccio lungo il viale delle Mura Latine, direzione Porta San Sebastiano. Costeggio la cinta muraria che un tempo delimitava l’accesso alla capitale di un grande impero. Che meraviglia la mia città: immensa, eccessiva, immobile. Immobile nel suo traffico, nella sua mentalità, nella sua gretta immoralità. Bella e sporca, eppure sacra e corrotta: Roma, l’ossimoro della toponomastica mondiale.
Mi aveva sempre fatto sentire piccolo la mia città, forse per la distanza con cui la osservavo, forse perché dal parabrezza dell’auto incolonnata sul Lungotevere mi sembrava di recepirne gli spazi da un’inquadratura ridotta, bidimensionale, tipica dei film. Non ero che lo spettatore della mia grande metropoli, l’invitato alla festa che non conosce nessuno e che sceglie di restare in disparte. Poi un giorno arrivò la crisi.
Circola da anni una balla che vuole che in cinese la parola “crisi” sia composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità. La mia ragazza, Elena, è l’orientalista che una volta per tutte ha dissipato in me il dubbio: nell’ideogramma cinese di “crisi” e non c’è traccia di opportunità… Con questo spirito acquistai la mia prima bicicletta da adulto. Nella mia scelta non c’era nessun intento ecologista, nessuna etica eco-solidale, al prefisso “eco” ho sempre preferito quello di “ego”. Più che un’opportunità, la definirei una necessità.
Pedala, pedala Lorenzo… che irrefrenabile voglia di scappare.
Necessità e vanità: il perfetto binomio che un giorno mi costrinse a volermi più bene, come afferma spesso Elena, ma in fondo lo penso anch’io. Non mi ero mai fatto troppi scrupoli sul futuro del pianeta, la cosa infastidiva la mia compagna, che invece è il tipo che stringe in mano l’incarto di un chewingum per chilometri, finché non trova il raccoglitore adatto per gettarlo. Eppure la questione doveva riguardarmi: sono un architetto. A nemmeno trent’anni ho fondato con un socio uno studio di progettazione e design: il risparmio energetico era alla base delle nostre proposte assieme all’arredamento eco-style. Possedevo un’auto molto costosa, frequentavo locali alla moda, passavo ore in palestra a costruirmi il fisico scultoreo che piaceva prima a me e alle donne di conseguenza… Poi un giorno la crisi ha bussato alla mia porta, anzi al portone del mio studio, e addio auto dai costi insostenibili, addio negroni sbagliato alle tre del mattino e addio bicipiti da copertina, ma non al fisico asciutto. Ci tengo, sono ancora giovane, basta un po’ di moto per mantenermi in forma. Ed ecco presentarsi la soluzione ideale su due ruote e lega di alluminio. Sono una persona migliore adesso, secondo Elena.
Pedala , pedala Lorenzo… giù lungo l’Appia Antica.
Chissà quanta gente e quante ruote hanno calpestato questi sampietrini. Le sospensioni della mia mountain bike riducono al minimo gli sbalzi della millenaria pavimentazione. Schizzo come una saetta su quella che fu la “regina viarum”. Respiro l’aria ripulita dagli alberi del vicino parco della Caffarella. In fondo alla via, filari di pini marittimi si ergono a guardiani delle ville esclusive dell’alta borghesia romana. Da bambino giurai a mio padre che ne avrei posseduto una; lui mi guardava ridendo mentre stringeva il pallone da calcio sotto il braccio, io lo seguivo sulla mia bmx nuova di zecca, la bicicletta che ogni rispettabile bambino negli anni Ottanta aveva l’obbligo di possedere: come era rassicurante la scampagnata domenicale lungo il fiume Almone… Comunque ci sono andato vicino, alla villa che sognavo intendo: abito nel quartiere di San Giovanni, in una confortevole mansarda arredata con gusto. Ci mancherebbe altro. In bici impiego sì e no una decina di minuti per raggiungere quest’oasi nel cuore di Roma e, con calma, posso costeggiare ogni monumento, ogni rudere o lussuoso edificio che sia stato eretto vicino alle Mura Aureliane, e me ne sento in parte padrone anch’io.
Siamo un po’ stretti io ed Elena nel nostro appartamento, ma è quello che finora mi sono potuto permettere. Faccio sempre l’architetto, la differenza è che lo faccio per lo studio di un altro. Il mio capo è una brav’uomo un po’ avanti con l’età, in ufficio gli portiamo molto rispetto e lui, d’altra parte, ci tratta come figli.
A proposito di figli, Elena dice che ne aspettiamo uno.
Pedala Lorenzo, pedala, pedala… voglio pedalare finché non avrò scardinato le leggi della gravità, e avrò fatto spuntare le ali di un jet a questa bici. Dio come vorrei essere altrove… Se percorressi a questa velocità tutta la via Appia, in quanto tempo potrei trovarmi a Brindisi?
Sfreccio accanto alla chiesa del “Domine quo vadis”. Sembra che proprio qui il devoto apostolo Pietro fosse stato colto da un umanissimo senso di paura tentando la fuga da Roma, e come dargli torto visto l’esito del suo martirio? A dissipare il dubbio però, ed infondere coraggio al fondatore della Chiesa, accorse lo stesso Gesù, a cui Pietro sorpreso pose la fatidica domanda: “Signore, dove vai?”. Sarà forse il luogo, così pregno di storia ed esempi, ad ispirare dissidi interiori e dubbi laceranti? Certo, non oso metter a paragone le situazioni… pedala, più veloce Lorenzo, pedala.
Ho già superato le Catacombe di San Sebastiano, di questo passo mi ritroverò fuori città in men che non si dica. Non mi sento pronto, tutto qui. Non so nemmeno che razza di futuro potrei offrire alla mia famiglia. Per non parlare del problema della casa. Soprattutto che genere di padre potrei essere se ancora mi sento una persona in costruzione?… Quo vadis Lorenzo?
Comincia a rinfrescare. Dall’altro lato della strada vedo scendere i ciclisti in direzione centro, mentre io continuo imperterrito la mia fuga da Roma e dalle responsabilità. Ho detto ad Elena che andavo a fare una passeggiata, lei se ne è rimasta calma sul divano sorseggiando un infuso. Che incredibile stoicismo dimostrano spesso le donne. Eppure anche lei era turbata, la conosco troppo bene. Da oggi avrà pronunciato un paio di monosillabi in tutto. In lei però c’è la voglia di affrontare la sfida che sarà, voglia che io non riesco a condividere.
Vedo stagliarsi sulla mia traiettoria la sagoma di due figure: una alta e una più piccola, un uomo e un bambino. L’uomo stringe sotto il braccio un pallone da calcio, il bambino lo segue a cavallo di una bici verde e nera. Stringo tra le dita la leva del freno, sterzo dolcemente per evitare di travolgerli. Mi passano accanto, li sento ridere. Il bambino ha attaccato il gagliardetto della sua squadra al manubrio, con il padre sta commentando i risultati della partita. Esercito maggior pressione sulla leva del freno, rallento la mia corsa e anche il tempo sembra rallentare e scorrere al contrario. Mi arresto del tutto. Dove stai andando Lorenzo? Che idiota.
Rapido sterzo il manubrio ed inverto bruscamente la direzione. Sorrido e mi sento più leggero, pedalo con scioltezza… accolgo questa fluidità di movimento e la trasferisco nei pensieri. Filo via veloce e silenzioso, mentre su Roma si scioglie il cielo aranciato di un tramonto a cui affido le mie promesse di uomo adulto. Corro a casa prima che la luce si diradi, stasera voglio esser io a preparare la cena.
Imago: Poema Quarzell