-cronistoria dell’ultima tappa del Cammino di Santiago-
In una porzione d’Universo chiamata Galassia, nella bolla locale del braccio di Gould, nella cintura di Orione, prende forma il pensiero di un essere vivente chiamato umano, un pensiero sferico come il pianeta che lo ospita; questo pensiero, dunque, si attorciglia a mulinelli di altri pensieri di esseri umani vorticando nell’atmosfera di un mondo chiamato Terra, fino a mischiarsi al suo ossigeno e alla sua acqua… Forse qui si cela la ragione per cui il colore del pianeta in questione è indicato come azzurro, perché, forse, tutti i pensieri hanno questo colore. Forse…
Di sicuro hanno una consistenza solida come l’acqua, composti come essa da molecole ben aggrappate alla materia che le contiene e le mantiene, persino mentre piroettano, o mentre disegnano orbite intorno ad un disco dorato, quel disco che una volta era venerato come un dio, oggi invece è catalogato come una nana gialla a cui è stato dato il nome di Sole.
Ora, un essere umano guarda al cielo, in un gesto atavico, forse il primo gesto che lo possa fregiare dell’appellativo di senziente. Da qui, questo essere senziente impara a riconoscere la sua atomica piccolezza, il suo recondito mistero. Impara perfino il senso di gratitudine per il fatto di sapersi reggere in equilibrio, sicuro come una costante, in un sistema di cui non si conoscono né le variabili né il risultato. Ed accade, spesso di notte, che questi ragionamenti facciano capolino, in una falsa idea d’intimità con le leggi universali, come se fosse possibile prenotarsi uno spazio privato di connessione con il cosmo.
“Dannazione! Qui di privato non c’è assolutamente nulla!”. Mormoro, ma nemmeno troppo, dal ripiano inferiore di un letto a castello in ferro battuto che puzza di ruggine e avrà perlomeno cent’anni. È stato impossibile chiudere occhio stanotte, in quanti saremo qui dentro? Venti? Trenta? No, no, almeno una cinquantina… Chi russa, chi si gira e rigira lasciando gracchiare la rete metallica di questa specie di giaciglio antidiluviano, mentre l’odore di scarpe usate impesta l’aria già appesantita dalla respirazione notturna, massiccia e collettiva.
Riccardo, nel vano superiore dello stesso letto in cui io stanotte non trovo pace, se la dorme beato. Siamo in viaggio da quattordici giorni, con una media onorevole (per noi sedentari cittadini) di almeno venti chilometri al dì. La sera giungiamo in ostello piegati in due dalla fatica che noi ravvisiamo tutta, vertebra per vertebra e muscolo per muscolo, e che invece pare non provino gli altri compañeros, di sicuro più allenati e visibilmente più atletici di noi.
Questa notte è l’ultima prima della meta. Venti chilometri ancora e dimenticheremo lo sforzo e le vesciche ai piedi, le volte che abbiamo pensato di mollare e le volte in cui lo sconforto ha avuto il sopravvento sulle emozioni. Solo venti chilometri prima della tappa finale: Santiago de Compostela.
Il nostro cammino ha avuto principio non dai Pirenei, come tradizione vuole, ma nell’altopiano della Castilla y León, proprio dall’antica capitale leonese. Ci è dispiaciuto parecchio prendere questa decisione, ma non disponendo dei giorni di ferie necessari, ci è sembrata la scelta più sensata, e francamente quella più alla nostra portata, data la scarsa preparazione fisica.
A differenza degli altri giorni, in cui qualche ora di sonno in più è stata provvidenziale per il recupero delle forze, per l’ultima notte ho pensato di partire in orario antelucano. Avremmo fatto il nostro ingresso a Santiago nella prima mattinata e saremmo così sfuggiti alla calca della messa di mezzogiorno.
Riccardo appoggia la mia idea, in parte perché la condivide, e in parte perché contraddire una donna stressata da oltre trecento chilometri di marcia è una partita persa in partenza.
Quattro antimeridiane. Gli altri pellegrini sono ancora avvolti nei loro sacchi a pelo. Io silenziosamente, per quanto possibile, provo a svegliare Riccardo dai suoi sogni. Pochi minuti dopo siamo già fuori dall’ostello di Arca: è buio e fa freddo, cominciamo a camminare zaino in spalla, torcia alla mano e felpa ben allacciata, quando il sole ci raggiungerà sarà inesorabile come lo è stato finora, ma per il momento la notte galiziana sembra avere il sopravvento; uno spicchio di luna occhieggia beffarda tra le fronde, l’alba sembra ancora lontana, e stranamente non c’è anima viva intorno: questo silenzio è piacevole, ma del tutto surreale.
Negli ultimi giorni c’eravamo abituati all’esuberante baccano del popolo spagnolo che quest’anno ha ben due ragioni per festeggiare: la nazionale di calcio ha vinto la Coppa del Mondo, ed in più ricorre l’Anno Santo compostellano 2010. Considerate tutte le bandiere rosse e gialle issate su zaini e bastoni, non nego di aver pensato, strada facendo, che molti tifosi abbiano realmente fatto un voto al Santo più famoso di Spagna, San Giacomo il Maggiore, prima che il campionato avesse inizio, perché più che un pellegrinaggio per alcuni di loro il tragitto consiste in una una vera e propria festa del ringraziamento, con tanto di bardamento da stadio e radiolina portatile urlante l’inno del mondiale.
Il più delle volte il chiasso ci aveva impedito di godere della poesia del paesaggio, ci aveva infastiditi distraendoci da quel dialogo interiore che prima o poi ci si ritrova a fare lungo la strada per Compostela. Ma ora ce n’è davvero troppo di silenzio, si ode a malapena il vento scuotere le foglie degli alberi, per il resto pare che il tempo si sia cristallizzato.
Ci muoviamo a rallentatore. Ma siamo sicuri di esserci svegliati o stiamo ancora sognando raggomitolati nel nostro letto a castello? Se non fosse per il freddo lo penserei davvero, ma il fatto di non essere madidi di sudore, inconveniente che ci si trova ad affrontare nelle affollate camerate d’ostello, mi fa credere che tutto sommato siamo desti e in piedi. Torcia accesa e avanti marsch! Certo, che buio pesto però…
Procediamo a rilento nella foresta di eucaliptus, abbiamo superato il rio di Lavacolla senza che ce ne fossimo resi conto. In passato, invece, sarebbe stato d’ obbligo una sosta per l’immersione nelle sue gelide acque per mondare il pellegrino da ogni lordura fisica o morale, rito necessario prima dell’incontro con l’apostolo Santiago. Teniamo gli occhi bene aperti rincorrendo le insegne della flecha amarilla, la freccia gialla, che è stata la nostra infallibile guida lungo tutto il cammino. Mi sono sentita spesso come Pollicino in mezzo al bosco: sono cresciuta in città, non ho fatto la scout, non so leggere una mappa, a malapena distinguo l’est dall’ovest, eppure nel groviglio di sentieri che segnano la Spagna e che conducono a Santiago, non ho mai avuto l’impressione di essermi persa. Bastava inseguire la flecha amarilla, come Pollicino ripercorreva il tracciato dei suoi sassolini fino a casa, io mi affidavo alla freccia del pellegrino: dipinta su una roccia, sulla corteccia di un albero, più spesso per terra, con la punta rivolta sicura verso l’obiettivo, il più preciso navigatore su cui l’uomo possa fare affidamento. Affidarsi: che magnifico significato ha questa parola, non la saprei spiegare meglio di quanto già lo sappia fare una freccia gialla sulle mura di una città, o su un sasso brullo nelle mesetas.
Le istruzioni erano piuttosto chiare: una volta usciti da Arca ci saremmo dovuti addentrare nella boscaglia che tappezza un’altura, e da lì, superato il fiume, saremmo risaliti per il pendio del Monte Gozo da dove avremmo intravisto il profilo di Santiago aprirsi improvvisamente sotto di noi, poi ci sarebbero state le lacrime e tutto il resto. Così ci avevano detto. A noi però sembra di girare in tondo da un bel pezzo, e anche questa macchia in cui ci siamo inoltrati è molto più fitta della descrizione riportata sulla guida, più fitta di quanto gli altri pellegrini ci abbiano raccontato. Per quanto riguarda le frecce poi… con questo buio fitto non si riescono a decifrare fra le rughe dei fusti degli alberi che mano a mano si fanno più caotici, più intricati e neri come tutto il resto.
Intorno s’odono civette cantare e un mormorio inquietante: il bosco nell’oscurità sprigiona un senso di vita arcano e sommesso, mentre alla luce diurna cede il passo ad uno squillante rimbalzare di echi gioviali e riconoscibili. La vegetazione selvatica di giorno è un rifugio corroborante, di notte è un antro minaccioso dove noi abbiamo smarrito le nostre frecce, come se un folletto cattivo le avesse cancellate appositamente per farci dispetto.
Giriamo confusi fra dedali di arbusti. Possibile ci sia capitato? Mi sento ancora come Pollicino, ma nella prima parte della storia, il momento in cui scopre che gli uccelli hanno mangiato le molliche di pane gettate per tracciare il sentiero del ritorno.
Lungo la strada per Santiago abbiamo ascoltato storie incredibili sui boschi della Galizia, a partire dalle “brujas”, le temibili streghe di Spagna che dimorano nei tronchi cavi di alberi, fino a… non mi ricordo, anzi adesso comincio ad innervosirmi perché la torcia che abbiamo con noi, e che è la prima volta che usiamo, sta emettendo una luce sempre più fioca. Manteniamo la calma, quanto ci vorrà prima che sorga il sole? Dai dai, piccola torcia, cerca di tenere per un’altra mezz’ora, cerca di illuminare almeno l’apertura verso un sentiero di terra battuta, di lì sarà facile orientarsi e fra poco farà giorno.
Fanculo torcia maledetta! Tutto questo ha dell’assurdo, come può essersi scaricata del tutto la batteria? Sembra la scena scontata di un film per adolescenti e invece sta capitando a noi. Soli, sperduti in mezzo al bosco e completamente ciechi. Io e Riccardo ci teniamo stretti stretti. Non sappiamo nemmeno dove mettere i piedi, tanto sarebbe il posto sbagliato.
“ Riccardo… Ti ricordi la storia di Miguel? Per me stava facendo il gradasso, tanto per attirare l’attenzione…” Ecco, proprio quello da non dire in un momento del genere.
Miguel è un ragazzo che abbiamo incontrato un paio di volte, al massimo tre, lungo il percorso. Quando si fa il Cammino di Santiago capita spesso di partire con un gruppo di persone e di arrivarci insieme a destinazione, non per particolari accordi, ma per una comune media di chilometri percorsi giornalmente. Miguel è partito all’incirca insieme a noi, ma l’abbiamo incrociato poco a causa della sua decisione di percorrere la strada principalmente di notte, scelta ragionevole a dire il vero, se si vuole sfuggire al tormento del sole e alle temperature da record che si raggiungono nella zona della Maragatería.
Abbiamo conosciuto Miguel mentre si cambiava le bende sporche di una fasciatura alle gambe: stava raccontando all’intera camerata l’attacco che aveva subito dai lupi in piena notte. Diceva di essersi accampato per riposare e di essere stato azzannato dai lupi nella parte inferiore delle gambe, esibite poi a tutti i presenti in ostello. Le piaghe erano evidenti, ma non mi capacitavo del fatto che nel terzo millennio qualcuno riuscisse ancora a farsi attaccare dai lupi. Appartengo a quella categoria di persone che hanno epurato tutto il mondo animale da qualsiasi concetto di ferocia, relegandola ad esclusiva peculiarità umana. Insomma nella favola di Cappuccetto Rosso per me l’unico stronzo è sempre stato il cacciatore, per questo l’attacco dei lupi di Miguel mi puzzava di mitomania. Purtroppo Miguel quella notte tenne svegli tutti noi, qualcosa doveva averlo sconvolto davvero: nel sonno non faceva che dimenarsi ed urlare “ El perro, el perro! Socorro!”.
Non riuscivamo a farlo rinsavire, sembrava un ossesso, il volto rosso e rigato di sudore. Povero Miguel.
“Riccardo, sento le civette ululare. Le civette ululano, vero?” farnetico stringendo Riccardo per il braccio.
“Non lo so e non voglio pensarci. Io non mi capacito solo di una cosa: non c’è uno spiraglio di luce che penetri dai rami e in vita mia non mi sono mai trovato così totalmente immerso nelle tenebre. Dobbiamo essere andati fuori traiettoria di brutto. Non so nemmeno da quanto giriamo, possibile che non ci sia nessun pellegrino che si sia messo in marcia qui intorno? Questo completo isolamento non è affatto normale.” Farfuglia lui fra i denti.
È vero. Chiudo gli occhi, tanto non c’è differenza col tenerli aperti. Dobbiamo stare attenti a non inciampare fra le radici e le buche, tutto può essere molto lontano o molto vicino e, cosa ancor più difficile, bisogna procedere mantenendo l’equilibrio. Arrancare in luoghi sconosciuti al buio completo… immagino sia lo stesso tipo di sensazione provata dal funambolo, o del trampoliere negli esercizi preparatori. Ed in più, qualcosa nella radura sta ululando senza dubbio. Anzi, quel qualcosa si sta avvicinando scuotendo cespugli e ansimando.
Forse Santiago è solo un gigante dormiente con i piedi sui Pirenei e la testa poggiata sull’Atlantico: non si chiama forse Saint-Jean-Pie-de-Port, San Giovanni del Piede di Porto, la tappa iniziale della via di Roncisvalle? La colonna vertebrale del gigante si snoda verso ovest seguendo le catene montuose della penisola iberica, mentre la città di Compostela è il suo occhio spalancato e puntato verso il cielo. Già, deve essere proprio così, forse stanotte il gigante ci ha ingoiati imprigionandoci nelle sue fauci.
“Ho paura” dico finalmente.
“Anche io” mi risponde Riccardo.
Ci arrestiamo. Pare che “qualcosa” voglia saltar fuori dalla radura, è lì… vicinissimo a noi.
Inaspettatamente udiamo dei fruscii alle nostre spalle, un chiacchiericcio tenue che ci distrae dal mostro che ci avrebbe sbranato di lì a poco. Forse anche il mostro l’ha udito, ci voltiamo e avvistiamo una piccola luce in lontananza. Le voci si fanno più chiare: sono due voci maschili, sembra che parlino in spagnolo.
“ Due pellegrini stanno passando di qui! E hanno una torcia!” esclamo felice.
Il cespuglio pare agitarsi ancora un attimo, poi calma piatta. Quella “cosa” si è allontanata.
Aspettiamo che i pellegrini si avvicinino a noi, nel frattempo rimaniamo immobili, ringraziando in cuor nostro il cielo per la fortunata tempestività.
Vediamo le sagome camminare lentamente nella nostra direzione, sono due uomini: uno più alto, con le spalle molto larghe e l’andatura curva, l’altro è più basso e magro, dritto come un giunco. Sono un anziano e un ragazzo. L’anziano parla lentamente, ha una voce calda e rassicurante e, sebbene sia una voce impastata dall’età, risulta piacevole e melodiosa. Sembra stia raccontando una storia al ragazzo.
Il giovane lo interrompe di tanto in tanto, credo ponga delle domande, purtroppo non li capisco, però ha un tono innocente e curioso. Forse sono nonno e nipote. Li aspettiamo come la manna dal cielo. Mi preparo anche un discorso per spiegare che la nostra torcia ci ha abbandonati in mezzo al bosco, che ci siamo persi perché siamo due imbecilli e, se per favore potessimo seguirli fino all’uscita di questo incubo, gli saremmo eternamente grati.
Finalmente i due ci sono di fronte. Il vecchio indossa un cappello a larga falda, con una mano tiene il bordone e con l’altra una torcia, anzi no! Sembra più una lanterna. Ha una barba folta, ma non distinguiamo bene i tratti del viso. Il ragazzo vicino a lui avrà al massimo quindici anni. Stringe fra le dita una mappa, porta uno zaino sulle spalle molto ingombrante da cui penzola, attaccata ad un filo, la conchiglia a pettine del pellegrino, la concha. Ci passano vicino, mentre tutto il bosco intorno tace. Anzi il bosco sembra aprirsi al loro passaggio, come se stesse aspettando solo quest’istante.
Adesso riesco chiaramente a distinguere i contorni degli alberi, e li percepisco di nuovo amichevoli, proprio come gli alberi sanno essere, a dire il vero appaiono persino reverenziali. Tutto è fermo e tranquillo, tutto è irreale. Credo che il tempo non esista più, in questo posto e da questo momento. I due però, sembrano non vederci, ci sfiorano e passano oltre.
Non osiamo disturbare l’attimo, prendiamo a seguirli senza proferir parola. Vorrei riuscire a capire il significato della storia che il vecchio sta narrando al ragazzo, ma mi sfuggono le parole, a volte non mi sembra nemmeno spagnolo, non mi sembra una lingua, ma una musica. Anche Riccardo tace e mi stringe la mano, camminiamo sereni, la tensione di poco prima si è sciolta liberando in petto una leggerezza mai provata.
Mano a mano la macchia comincia a diradarsi, le fronde ad aprirsi lasciando spazio ad un vago chiarore. Le nostre due guide si arrestano davanti a noi. Il vecchio stende un braccio verso il cielo terso, quello che poco fa era impossibile da scorgere, punta l’indice verso la scia della Via Lattea, ed indicandola pare la voglia accarezzare delicatamente.
“Osserva, sei giunto fin qui percorrendo il sentiero della Via Lattea, non hai fatto altro che seguire il tracciato delle stelle, e quindi ai piedi delle stelle troverai ciò che sei venuto a cercare. E’ il Campus stellae, è Compostela, il campo della stella.” Dice con calma l’anziano rivolto al giovane, forse in lingua spagnola, ma a me arriva comunque in italiano, ne sono certa.
Rimango a fissare il suo dito come pure fa Riccardo, mentre il ragazzo sorride. Il dito allora scivola verso il basso indicandoci le luci scintillanti della città che rincorrevamo da giorni e che si rivela alla nostra vista in tutta la sua bellezza. C’eravamo proprio sopra.
Lo stupore è tale che avanziamo con uno scatto in direzione della meta. Le guglie della cattedrale svettano all’orizzonte facendoci scoppiare dalla felicità, ci lasciamo andare agli abbracci e alla commozione. Ci ricomponiamo per voltarci a ringraziare i due, anche se sappiamo che non li troveremo. E così è. Al loro posto rimane solo la foresta da dove siamo sbucati, con la sua oscurità e i suoi tranelli. Non ritroveremo più le nostre guide.
“Lo sai, vero Riccardo?” domando io.
“Sì, lo so.” risponde lui.
Tutti giungono a Compostela per cercare qualcosa, e qualcosa alla fine trovano, fuori o dentro che sia.
Io ero venuta a cercare il mio piccolo spazio privato di connessione col cosmo, e qui, dopo quattordici notti, l’ho trovato… Qui, in una porzione d’Universo chiamata Galassia, nella bolla locale del braccio di Gould, nella cintura di Orione, prende forma il pensiero di un essere vivente chiamato umano, un pensiero sferico come una stella, un pensiero luminoso a cui potersi abbandonare fiduciosamente e così brillante da illuminare tutti gli altri… un pensiero che da quel giorno non mi ha più lasciata.